Fulvio Tomizza

GLI SPOSI DI VIA ROSSETTI (frammento)

Dalla notte trascorsa insieme si consideravano segretamente fidanzati. Luil’aspettava nel viale dell’Acquedotto, alla base dell’erta di via Rossetti. Come la vedeva apparire all’incrocio con via Crispi le si muoveva incontro iniziando la salita; allora lei non frenava più il passo, si lasciava condurre giù quasi di corsa per finire ansante ma fresca tra le sue braccia, Camminavano lenti sotto gli ippocastani incurvati del viale, i tavolini dei bar da una parte e dall’altra, e prolungavano la passeggiata prendendo il tram per Barcola, Salivano su per la stradina che porta al Carso di Contovello, entravano in uno dei tanti campetti cinti da muri a secco e si sedevano aderendo con la schiena alle pietre calde. Avevano davanti tutto il mare del golfo e per tetto le foglie ruvide del corniolo.

Era piacevole per Stanko entrare non più da solo nei saloni del caffè degli Specchi, del Fabris, della Stella Polare, dove aveva trascorso gran parte del primo soggiorno triestino leggendo o scribacchiando poesie come nei caffe di Lubiana e di Venezia. Dani si sentiva osservata con interesse dai vicini di tavolo anche quando non lo era affatto, e il suo fidanzato ancora abusivo ne provava una punta di avvilimento. Del loro rapporto lui aveva parlato soltanto a don Milanović, il quale era rimasto incredulo e poi muto. Ora, proprio nei momenti in cui lei cedeva al fastidioso desiderio di farsi notare, spesso deliberatemente per vederlo contrariato, a lui si chiariva ciò che più urgeva per un armonico sviluppo della loro relazione: un passo di lei verso la fede, mediante l’adempimento di almeno una delle piccole pratiche quotidiane del buon cristiano. In cambio le avrebbe perdonato ogni capriccio e ogni smorfia. Se lo infisse cosi nella mente, da esigerlo. Ma quando la ragazza imbrogliava in modo fin troppo palese, non gli restava che crederle.

Dani si era presto abituata al suo particolare saluto cristiano allorché giungeva in visita, e non appena compariva sulla porta gli offriva la fronte perché vi tracciasse col pollice il segno della croce: seguiva il bacio a fior di labbra e, se i genitori non erano presenti, un bacio appassionato, simile a quello che avveniva quando lui, avvicinatolesi furtivamente mentre suonava il pianoforte nella sua stanza tutta tappezzata di rosso, le bloccava le mani sui tasti e le arrovesciava la testa.

Le serate dai Tomažič diventavano sempre più familiari senza che l’ospitalità avesse a risentirne. I piatti della signora Emma erano ogni volta diversi anche se si mangiava in cucina. Sior Pepi ricompariva dalla cantina con l’intero prosciutto per affettarlo in presenza del corteggiatore della figlia. Alla fine della cena, se era ancora presto per recarsi a nanna o se la conversazione prendeva una piega delicata (impossibile che con lo Stanko andasse esaurendosi), la padrona di casa estraeva dal cassetto il mazzo di carte triestine, coi danari grandi e i bastoni grossi, non prima di aver pulito il tavolo dall’ultima briciola.

 

Source: Vilenica Almanac 86